Una delle pensatrici più acute del novecento, Simone Veil ci ha lasciato di recente all’età di 89 anni. Con lei se ne va un’epoca, ma rimangono i valori che ha testimoniato con la vita e con gli scritti filosofici. Di questa pensatrice si parla poco, come di tante donne che fanno filosofia. Eppure, Simone Veil ha attraversato il dramma della deportazione e della Shoah e lo ha raccontato con una teoresi limpida. Studiò all’Ecole Normale e discusse una tesi su Descartes; insegnò a scuola, ma la passione politica la condusse nel 1934-35 a chiedere un congedo per studiare la condizione operaia, così trascorse otto mesi in fabbrica per toccare con mano la condizione dei lavoratori. Filosofa sensibile, si interessò ai temi della produzione, dello squilibrio economico e della povertà. Scrive le “Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale”. Mentre per Marx il tema del lavoro viene affrontato da un punto di vista concreto ed economicistico, nella pensatrice è presente un’ispirazione ancora spiritualista di matrice cartesiana, che la conduce al rifiuto della visione materialista del mondo di impronta socialista. Così Veil non offre soluzioni agli squilibri sociali, che sono per lei comunque un’occasione preziosa di riflettere con profondità sulla vita. Detti squilibri rientrano all’interno di una complessa visione escatologica cui si lega lo stesso dramma della Shoah. Il lavoro per la filosofa francese dovrebbe essere espressione di creatività ed intelligenza, mentre diviene, fatto molto attuale, strumento di atroce disumanizzazione. Già nell’ingiustizia di fabbrica nei rapporti di produzione la filosofa vede la presenza oscura di una forza che si abbatte ciecamente sull’umanità. La stessa che ha schiacciato il popolo ebraico. Durante la guerra civile spagnola la filosofa francese per un periodo si unisce alle truppe repubblicane antifranchiste, in seguito intraprende dei viaggi di formazione. Nel 1939 compone “L’Iliade o poema della forza” in cui la pensatrice sostiene che la protagonista assoluta de “L’Iliade” è la violenza e i singoli eroi non sono che strumenti nelle mani di una forza bruta, accumunati da un destino di morte. Non c’è rimedio all’ingiustizia per la filosofa. Il concetto del male ritorna prepotentemente nei “Quaderni”, pubblicati tra il 1941 e il 1942, opera affascinante ma percorsa da una concezione pessimistica della vita. La profonda infelicità dell’uomo è detta “malheur”, sventura, ed affonda le proprie radici in una concezione cabalistica, in base alla quale dio per creare il mondo si sarebbe contratto e avrebbe rinunciato a parte della sua onnipotenza: come spiegare altrimenti lo sterminio del popolo eletto? Si tratta di una visione originale di cosiddetta “decreazione” che accomuna alcuni pensatori di origine ebraica i quali, durante la seconda guerra mondiale, si sono posti un quesito di fondo: come mai è presente il male nel mondo, se dio è buono? (Martina Calvi)